DVR inadeguato e consulente: responsabilità e suoi limiti

Il datore di lavoro è senza dubbio il primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., in quanto garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21 ottobre 2014, Ottino, Rv. 26320001).


A lui sono attribuiti in via esclusiva il compito di predisporre il documento di valutazione dei rischi, il piano operativo di sicurezza, nonché la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP). Si tratta di obblighi non delegabili, tranne in presenza di rischi particolarmente complessi e specifici, ma il conferimento a terzi della delega o comunque il coinvolgimento di terzi nella redazione di tali documenti non esonera il datore di lavoro dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia (Sez. 4, n. 27295 del 2 dicembre 2016, Furlan, Rv. 27035501; Sez. 4, n. 22147 del 11 febbraio 2016, Morini, Rv. 26685901).


È noto tuttavia che nella maggior parte dei casi il datore di lavoro, che pur assume la responsabilità della redazione del DVR sottoscrivendolo, non è in grado di predisporlo, in quanto per i contenuti più tecnici del documento egli necessita molto spesso del contributo di altri soggetti che possiedono quelle competenze.


A parte i casi di realtà aziendali strutturate e complesse, che possiedono al loro interno le risorse necessarie, sovente il contributo tecnico proviene da un consulente esterno.

Il ruolo del consulente e i confini della sua responsabilità nel caso di DVR inadeguato sono uno dei temi centrali della sentenza in commento (Cass. Pen., sez. IV, 21.12.2018 n. 57937).


Nel caso di specie alcuni lavoratori erano rimasti vittime di un infortunio all’interno del reparto fonderia di una società. Secondo quanto accertato, i tre lavoratori si trovavano in prossimità di una macchina centrifuga al cui interno erano stati appena colati 361 Kg di metallo fuso alla temperatura di circa 1.600 gradi. A causa della deformazione e del cedimento di due dei tre dispositivi meccanici di trattenuta della flangia (costituiti da spine coniche d’acciaio), quest’ultima si sollevava e in pochi istanti fuoriusciva una massa di circa 270 Kg di acciaio allo stato liquido incandescente che colpiva in varie parti del corpo gli operai che si trovavano nei presso del macchinario.


Al libero professionista esterno all’azienda (perito industriale specialista in prevenzione antinfortunistica), legato al datore di lavoro da un contratto d’opera intellettuale, si addebitava di non aver adeguatamente coadiuvato il datore di lavoro nella valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. In particolare, gli si rimprovera di non aver valutato i rischi derivanti dalla messa in servizio e dalle modalità di impiego dell’attrezzatura che aveva provocato l’incidente. L’attrezzatura, si consideri, era stata autoprodotta dal datore di lavoro e messa in servizio già da alcuni anni, senza progetto e senza la previa attestazione di conformità ovvero senza dichiarazione CE.


In sintesi, al professionista si contestava di non aver segnalato le predette situazioni di rischio al datore di lavoro che, pur essendo anche RSPP, non possedeva cognizioni in materia di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori.


La Corte di Appello di Bologna, conformemente a quanto statuito dal primo giudice, riteneva la responsabilità del primo consulente quale soggetto inserito ex contractu nella valutazione dei rischi del ciclo industriale dell’azienda.


Nel ricorso per Cassazione il consulente evidenziava che le disposizioni (all’epoca vigenti) del D.Lgs. n. 626 del 1994, stabiliscono che le attività di valutazione dei rischi per la sicurezza dei lavoratori sono poste a carico del datore di lavoro e non sono da lui delegabili. Di conseguenza, un soggetto estraneo all’organizzazione aziendale cui sia affidata una generica consulenza non può essere chiamato a condividere la responsabilità del datore di lavoro. Nessun dato contrattuale depone nel senso che a lui fosse stata affidata la messa in sicurezza delle macchine che consentono di colare il metallo fuso, con compiti specifici di redazione di un adeguato DVR. Non risulta peraltro alcuna delega espressa in tal senso e, anzi, la valutazione dei rischi specifici della macchina centrifuga risulta svolta da altri soggetti. Di qui l’apoditticità dell’inferenza dei giudici bolognesi, secondo cui il datore di lavoro, avvalendosi di consulenti esterni avrebbe demandato agli stessi un obbligo permanente di adottare misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori.


La Cassazione, ritenuta la fondatezza dei motivi di ricorso, rileva come la sentenza impugnata non abbia fatto buon uso dei principi di imputazione oggettiva del reato omissivo improprio colposo.


In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia – che può essere generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere dovere di gestione della fonte di pericolo, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro (Sez. 4, n. 19029 del 01/12/2016 – dep. 2017, De Nardis, Rv. 26960201).


Nel caso in esame le gravi anomalie e carenze strutturali della macchina e del suo sistema di bloccaggio sono da ascrivere principalmente al datore di lavoro, che la ideò, progettò e realizzò in maniera del tutto empirica.


Non solo. La motivazione della Corte di Appello di Bologna non spiega sulla base di quali elementi si debba ritenere che la posizione del consulente esterno gli imponesse non soltanto di coadiuvare il datore di lavoro nella redazione del documento di valutazione dei rischi – il cui obbligo, viene ribadito, ricade interamente sul datore di lavoro – ma anche di entrare nel dettaglio delle caratteristiche progettuali della macchina centrifuga.


“È poi del tutto inaccettabile”, scrive la Cassazione, “e vuota di significato l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l’inserimento di un qualsiasi soggetto nella valutazione dei rischi del ciclo industriale non lo esenta da corresponsabilità. In linea generale, avvalersi di consulenti non implica necessariamente il trasferimento degli obblighi di protezione dal datore di lavoro ai soggetti esterni all’azienda, come sembra erroneamente affermare la Corte di appello: semmai è sempre il datore di lavoro (assistito dal r.s.p.p., che nel caso coincidono) che è tenuto per legge ad adottare le opportune misure precauzionali. Si deve, piuttosto, qui ribadire che i principi di imputazione oggettiva e soggettiva del reato colposo commissivo mediante omissione impongono di esaminare in maniera accurata le modalità di inserimento e le specifiche attribuzioni del soggetto all’interno del ciclo aziendale, al fine di delinearne una eventuale posizione di responsabilità quale soggetto garante del bene tutelato”.


In altre parole, un consulente esterno può essere chiamato a rispondere di eventuali comportamenti colposi che abbiano contribuito, in cooperazione colposa ex art. 113 c.p., con le figure, datore di lavoro in primis, principali destinatarie degli obblighi prevenzionistici in materia di infortuni sul lavoro – all’aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento (Sez. 4, n. 43083 del 03/10/2013, Redondi e altro, Rv. 25719701).


Occorre, però, che una simile condotta di cooperazione colposa sia correttamente analizzata e specificamente individuata sulla base di un ragionamento probatorio che dia conto, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua esistenza e riconducibilità al prevenuto in termini di prevedibilità e prevenibilità dell’evento.


Il testo approfondito è pubblicato sulla rivista www.lavoreambiente.it ed è consultabile per gli abbonati a questo link.


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