Il 3° co. dell’art. 3, L. 15.12.2014, n. 186 ha introdotto nell’ordinamento penale italiano, dopo un lungo dibattito dottrinale e dopo un travagliato iter parlamentare, il delitto di autoriciclaggio, oggi disciplinato dall’art. 648 ter.1 c.p.
Soggetto attivo del reato è l’autore del delitto presupposto. Si tratta, pertanto, di un reato proprio.
La condotta tipica consiste nell’impiegare, sostituire, trasferire, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto.
Due elementi contribuiscono alla delimitazione dell’area di rilevanza penale del fatto: 1) le condotte devono essere idonee ad ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa del loro oggetto; 2) i beni devono essere tassativamente destinati ad attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.
Ai sensi del 4° co. della norma, non sono punibili, fuori dei casi di cui ai commi precedenti, le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale.
E’ ben noto il dibattito sorto in dottrina sulla suddetta clausola all’indomani dell’introduzione del delitto di autoriciclaggio.
La questione, in particolare, riguarda il significato da attribuire alla locuzione “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti (…)”.
Secondo una prima tesi, la norma andrebbe interpretata in senso letterale e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti.
In altre parole, la locuzione “Fuori dei casi (…)” indicherebbe condotte di per sé prive di rilievo penale in quanto difformi dal tipo delineato nel primo comma dell’art. 648 ter.1 c.p.
A tale tesi si è obiettato che la suddetta interpretazione renderebbe del tutto superfluo il comma 4. Infatti, posto che il comma 1 sanziona l’impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dal commissione del delitto presupposto, si sarebbe potuto ugualmente pervenire a ritenere non punibile “le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”, proprio perché si tratta di condotte estranee all’area della condotta tipica e, quindi, non punibili perché non integrano il reato.
Secondo un diverso orientamento, dotato di minor seguito, la suddetta clausola rappresenterebbe un limite alla condotta sanzionata nel comma 1; una causa di non punibilità da applicare tutte le volte in cui la condotta “autoriciclatoria”, di per sé punibile, sia finalizzata alla utilizzazione o godimento personale del denaro, dei beni o delle altre attività provento del delitto presupposto.
In termini diversi, il legislatore avrebbe voluto escludere la punibilità di determinati comportamenti – benché sussumibili entro la sfera di tipicità della nuova incriminazione – in ragione della peculiare destinazione impressa dal reo ai proventi delittuosi, il che renderebbe inopportuna sul piano politico-criminale l’inflizione di una pena.
Ovvie ed intuitive le diverse conseguenze pratiche delle due tesi.
La prima tesi – chiaramente restrittiva e di stretta interpretazione – pone il suo baricentro sulla condotta descritta nel comma 1: di conseguenza, una volta che la fattispecie criminosa sia integra in tutti i suoi requisiti, l’agente è sanzionabile penalmente essendo del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia “meramente” utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale.
La seconda tesi – avente natura estensiva – tende a ricondurre nell’alveo delle condotte non punibili tutte quelle che, seppure rientranti in quelle descritte nel comma 1, abbiano come risultato finale quello della mera utilizzazione o godimento personale dei proventi del reato presupposto.
Come detto, la prima tesi è quella prevalente.
Nel caso trattato dalla Cass. pen. Sez. II, 07/06/2018, n. 30399, il ricorrente sosteneva che, poiché il denaro proveniente dal delitto presupposto era stato utilizzato per estinguere un finanziamento e, quindi, per adempiere ad una propria obbligazione, egli non sarebbe punibile a norma del cit. comma 4. La Suprema Corte, nel disattendere le ragioni del ricorrente, ha invece evidenziato come l’aver destinato una parte delle somme distratte dalla società fallita all’estinzione di un debito nei confronti di altra società, per procedere alla cancellazione dell’ipoteca su un complesso immobiliare poi ceduto, non integra l’ipotesi contemplata dall’invocato art. 648 ter.1 c.p., comma 4.
Ancor più di recente, la Suprema Corte con la sentenza 9681/2019 (Cass. Pen., Sez. II, 5.3.2019 n. 9681), ha confermato la sussistenza del reato nella condotta di chi avrebbe riscattato una polizza vita per un valore di € 640.000,00 che sarebbero stati addebitati nel medesimo conto corrente della polizza, c.d. scudato in quanto acceso per la regolarizzazione effettuata D.L. n. 78 del 2009, ex art. 13 bis. La provvista così ottenuta sarebbe stata trasferita presso un altro conto corrente bancario, sempre intestato al ricorrente, ed utilizzata per acquistare due nuove e diverse polizze vita rispettivamente del valore di € 300.000,00 e € 340.000,00.
La difesa rilevava che l’operazione complessivamente compiuta, vale a dire il riscatto di una polizza vita, il trasferimento della somma così conseguita e l’acquisto di due diverse polizze vita, non avrebbe natura economica, finanziaria o speculativa e pertanto non rientrerebbe nella previsione di cui all’art. 648 ter.1 c.p., comma 1 .
Ad avviso dei supremi giudici, invece, la verifica circa la sussumibilità dell’operazione nel paradigma del reato di riciclaggio ovvero di autoriciclaggio, deve fare riferimento agli aspetti complessivi dell’intera operazione ed alla possibilità che questa abbia di dissimulare l’origine delle somme, intesa come capacità dell’attività posta in essere di attenuare, “allontanare”, progressivamente la correlazione tra il controvalore trasferito e l’originaria somma di provenienza illecita (cfr. da ultimo Sez. 5, n. 21925 del 17/04/2018, Ratto e altri, Rv. 273183 per la quale integra il delitto di riciclaggio il compimento di condotte volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, e ciò anche attraverso operazioni che risultino tracciabili, in quanto l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa del bene non costituiscono l’evento del reato).
Nel caso di specie l’operazione, caratterizzata dall’acquisto, con la medesima somma, di due polizze diverse e di differente importo, qualificata e segnalata come sospetta dalla Banca d’Italia, è stata coerentemente ritenuta idonea ad ostacolare in concreto l’identificazione dell’origine delittuosa delle risorse finanziarie originarie.