Un’interessante sentenza apre uno squarcio in quel tessuto giurisprudenziale che ravvisa la responsabilità penale in capo agli organi apicali delle aziende per infortuni causati dalle prassi elusive dei sistemi di protezione.
Non è infrequente che i lavoratori, per velocizzare le procedure produttive, adottino comportamenti che, aggirando le procedure di sicurezza, li espongono ad un maggior rischio infortunistico. Un caso emblematico è quello della seconda tastiera di avvio delle presse che, secondo abitudini esiziali, viene bloccato nella posizione di avvio in modo tale da non obbligare il secondo operatore a lasciare la postazione di caricamento vicino alla base della pressa.
Nelle aule giudiziarie si discute perciò se il datore di lavoro, il suo delegato o il dirigente, debbano rispondere dell’infortunio.
Solitamente il profilo di colpa che viene contestato è quello della violazione dell’articolo 71 del TUA che impone l’uso dei macchinari in conformità alle istruzioni di uso. Si afferma che la prassi pericolosa costituisce fonte di responsabilità allorché tollerata o venuta in essere a causa di carenze organizzative di ordine generale.
Negli ultimi anni però è andato formandosi un orientamento interpretativo per il quale la condanna deve fondarsi sulla prova che l’imputato conosceva quella prassi pericolosa.
Quest’affermazione potrà sembrare ovvia, ma non è così: alcune decisioni (es: Cass. pen. Sez. IV Sent., 24/02/2015, n. 13858) hanno ritenuto che il fatto dell’instaurarsi di una prassi illegale costituisse prova, essa stessa, delle carenze organizzative che fondano la responsabilità del soggetto apicale. Si si sono instaurate, insomma, abitudini lavorative pericolose, significa che c’è un difetto organizzativo rilevante per il verificarsi dell’infortunio.
È evidente che, così ragionando, la specifica conoscenza della singola prassi non è così rilevante per l’affermazione di responsabilità. Di diverso avviso, invece, l’altro orientamento giurisprudenziale, ben rappresentato da questa sentenza, per il quale invece la responsabilità del soggetto apicale è indissolubilmente legata alla conoscenza della prassi illegale instauratasi. In particolare, nel caso esaminato dagli Ermellini, i giudici di merito avevano ritenuto che, essendo il personale di vigilanza a conoscenza dei comportamenti pericolosi dei lavoratori, si doveva dare per scontano che anche il dirigente ne fosse consapevole.
La Corte di Cassazione ha bocciato il ragionamento, chiaramente viziato perché suppone circostanze che, invece, vanno provate.
Ma c’è un… “ma”.
Quel ragionamento, spiega la Corte, è comunque valido sul piano logico allorché la rimozione dei presidi precauzionali sia “univocamente frutto di una scelta aziendale chiaramente finalizzata ad una maggiore produttività”.
In tal caso però la prassi illegale non sarebbe “tollerata” ma addirittura voluta o imposta dai vertici aziendali, sicché si presterebbe il fianco a contestazione di reati anche più gravi.