FRODE FISCALE E RESPONSABILITÀ DEL COMMERCIALISTA

Il commercialista risponde, in concorso con il cliente, del reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 74 del 2000, in ogni caso in cui abbia predisposto e inoltrato la dichiarazione fiscale pur avendo conoscenza, o almeno il sospetto, della falsità dei documenti utilizzati.

Con la sentenza n. 28158 del 27 giugno 2019, la Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema, sempre attuale, della responsabilità del professionista contabile che predisponga dichiarazioni fraudolente basate su documentazione non veritiera.

Nella vicenda in oggetto il consulente contabile di una società era stato condannato, in concorso con gli amministratori di fatto e di diritto oltre che con il responsabile amministrativo di una srl, per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, con riferimento alle dichiarazioni presentate ai fini IVA nel 2009, 2010 e nel 2011.

Il ricorrente ritiene che la sentenza impugnata abbia affermato la sua responsabilità sulla base di condotte non illecite ma tipiche di ogni commercialista che operi come consulente contabile di una società, quali la tenuta della contabilità, la partecipazione ad assemblee, la somministrazione di consigli leciti. Piuttosto, l’imputato si lamenta del fatto che la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare: a) le dimensioni multinazionali della società, avente fatturato milionario, sede e piattaforma in Cina; b) la provenienza da questo paese della maggior parte dei materiali e dei prodotti finiti; c) la mancata disponibilità delle fatture da parte del ricorrente, sistemate in un luogo diverso dal suo studio professionale; d) l’assenza di qualunque contatto tra il medesimo e le società emittenti le false fatture.

Nel ricorso si censura infine la rilevanza, quale elemento a carico, della tenuta della contabilità aziendale dal 2005, l’irregolarità di questa e la precedente sottoposizione della società ad indagini da parte della GdF, oltre alla circostanza che l’amministratore di fatto della società si fosse assunto ogni responsabilità.

La Corte di Cassazione ritiene che il commercialista di una società possa concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, infatti, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa, non solo in caso di concorso morale ma anche di concorso materiale, fermo restando l’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazionee di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficientecon le attività poste in essere dagli altri concorrenti (cfr., per un precedente in tema di concorso materiale, Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01, nonché, per precedenti in tema di concorso morale, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101-01, e Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310-01).

Con riguardo al profilo della colpevolezzaè condiviso l’indirizzo secondo cui il dolo specificorichiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA(così, in particolare, Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, B., Rv. 274104-01, e Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Damiani, Rv. 264395-01).

La sentenza impugnata afferma l’attribuibilità al consulente contabile dei fatti di reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2,commessi tra il 2005 ed il 2011, con riferimento alle dichiarazioni presentate per gli anni 2006, 2007, 2008, 2009 e 2010, sulla base di una pluralità di elementi.

La sentenza evidenzia, in primo luogo, una serie di circostanze che, per la verità, non paiono da sole dirimenti, come il fatto che il ricorrente: «a) era il consulente fiscale della società nel cui interesse le dichiarazioni erano state predisposte e di tutte le società facenti capo alla medesima famiglia, alcune delle quali avevano anche sede presso il suo studio; b) era preposto alla cura dei rapporti dei componenti della famiglia con alcune società fiduciarie; c) ha rappresentato le due società in alcune assemblee della società interessata; d) curava la predisposizione dei bilanci di esercizio della società; e) disponeva di un “accesso diretto in remoto al sistema informatico della società” per “ottenere dei report contabili periodici”».

Ben più rilevante, invece, sotto il profilo della consapevolezza, il fatto che il ricorrente fosse a conoscenza di numerose anomalieconcernenti la contabilità della società sin dal 2005, evidenziate da accertamenti della Guardia di Finanza. «Quest’ultima, infatti, aveva sequestrato numerose fatture di acquisto della società proprio per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2,ipotizzato per gli anni dal 2003 al 2005 in relazione ad operazioni inesistenti per un valore complessivo superiore a 17.000.000,00 di euro. Inoltre, le fatture in questione erano state emesse da società che poi risultano emittenti di ulteriori false fatture, per svariati milioni di euro, utilizzate nelle dichiarazioni presentate tra il 2007 ed il 2011». Infine, evidenzia la Cassazione, l’imputato già nel 2005 era consulente fiscale della società ed aveva utilizzato, nella dichiarazione presentata nel 2006, le fatture sequestrate e relative all’anno 2005.

In altre parole, il ricorrente è da ritenersi perfettamente a conoscenza sia dell’omessa istituzione e tenuta della contabilità di magazzino, sia dell’irregolare tenuta del registro degli inventari, anche perché queste gravi violazioni erano periodicamente segnalate dal collegio sindacale, con il quale egli era in continuo contattoed al quale forniva documentazione.

Deve rilevarsi, per completezza, che numerose conversazioni telefoniche intercettate confermano la consapevolezza ed il coinvolgimento del ricorrente in ordine alle pratiche illecite.

Si consideri, infine, che il ricorrente, come da lui stesso ammesso, ha predisposto ed inoltrato la dichiarazione fiscale relativa all’anno 2010 utilizzando fatture per operazioni inesistenti concernenti elementi passivi fittizi pari a € 36.601.823,91 (con IVA indebitamente detratta pari a € 7.320.364,78) ancora nell’ottobre 2011, sebbene «le conclamate modalità truffaldine di gestione contabile della società erano state acclarate, certificate e comunicate dalla Guardia di Finanza attraverso la verifica fiscale del luglio 2011».

In definitiva, il contributo causale del ricorrente alla commissione dei reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 è ritenuto sussistente già nelle azioni costituite dalla predisposizione e dall’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale. Inoltre, un’ulteriore forma di contributo causale, rilevante almeno come rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, è correttamente individuata nella complessiva attività di supporto per la “sistemazione” documentale di gravi violazioni contabili, come risulta dal contenuto di numerose intercettazioni telefoniche.

Per quanto riguarda la colpevolezza, scrivono i giudici, «molteplici sono gli indizi correttamente valorizzati per evidenziare la sussistenza del dolo, quanto meno eventuale. In particolare, di notevolissima forza logica sono gli indizi desumibili, in riferimento a tutte le dichiarazioni fiscali, dalla consapevolezza, da parte del ricorrente, quale consulente contabile della società, degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza nel 2005 in ordine alle fatture emesse negli anni tra il 2003 ed il 2005 da quelle stesse ditte a cui sono riferibili plurime fatture, e per cospicui importi, negli anni dal 2007 al 2011, e, poi, con specifico riferimento alla dichiarazione presentata nel settembre/ottobre 2011, dalla consapevolezza, del medesimo ricorrente, anche degli ulteriori accertamenti compiuti, sempre dalla Guardia di Finanza, nel luglio del 2011».

In conclusione, nonostante i reati tributari siano tipicamente reati propri, che possono essere commessi da taluni soggetti “qualificati” e non da tutti, la possibilità di concorrere con il cliente-imprenditore è concreta e tutt’altro che remota.

Tale evenienza, peraltro, si presenta sovente nelle forme di cui alla vicenda in oggetto: documentazione falsa fornita al consulente per predisporre la dichiarazione fiscale. Circostanza che, come nel caso di specie, impone di concentrare l’attenzione sugli elementi in grado di dimostrare la consapevolezza del professionista circa la bontà della documentazione che gli viene messa a disposizione.

I principi affermati nella sentenza della Cassazione in commento, come detto all’inizio, non sono nuovi, ma occorre ad essi fare sempre più spesso riferimento e tenerli in considerazione, posto che il commercialista è sempre più coinvolto, come dimostrano le ultime riforme approvate, nella gestione della società-cliente.

Quanto più sarà approfondito il suo livello di conoscenzadelle dinamiche societarie, tanto più consapevolesarà il suo agire e quindi colpevolela condotta di colui che suggerisca, induca, agevoli o contribuisca a realizzare un illecito penale.



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