Quali sono i “lavoratori” rispetto ai quali il D.L. è tenuto agli obblighi ex D.Lvo 81/08?

La sentenza Cass. pen. Sez. III, (ud. 18-09-2020), dep. 06-11-2020, n. 30923 viene segnalata per due ordini di ragioni: in primo luogo perché chiarisce la definizione di lavoratore rilevante ai fini della normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro di cui al d.lgs 81/2008 (per brevità TUSL); in secondo luogo perché, annullando con rinvio la decisione di primo grado, corregge una interpretazione discutibile che il Tribunale di Treviso aveva mutuato da un precedente della Cassazione del 2017.

La vicenda. Il Tribunale di Treviso, con sentenza del 23.9.2019, aveva condannato un imprenditore edile che, nella sua qualità di Datore di Lavoro, aveva omesso di inviare un “dipendente” a visita medica secondo le scadenze di cui al programma di sorveglianza sanitaria, così violando l’art. 18 co. 1 lett. g) del D.Lgs. 81/2008. Il fatto rilevante è che il soggetto presente in cantiere al momento del sopralluogo degli ispettori del lavoro non era un lavoratore dipendente, ma una persona cui l’imputato aveva richiesto un consiglio tecnico e che, solo per tale ragione, si trovava in cantiere quel determinato giorno.

Il Tribunale, ricorrendo ad una applicazione rigorosa dell’art. 2 comma 1 lett. A) del TUSL, aveva ritenuto che “la presenza del B. presso il cantiere gestito dal C. è circostanza che, quale che fosse l’attività da costui in tal momento prestata, anche di mera consulenza occasionale, è tale da far ritenere riferibile ad essa la definizione di lavoratore stabilita dal D.Lgs. n. 81 del 2008 art. 2 ed a rendere, pertanto, cogenti nei confronti del datore di lavoro gli obblighi connessi alla citata qualifica sancito dal ricordato D.Lgs. n. 81 del 200, art. 18.”

In pratica, il giudice di merito ha negato qualsiasi rilevanza alla prestazione concretamente svolta dal consulente, attestandosi, in maniera certamente discutibile, sul dato puramente letterale dell’art. 2 del TUSL.

Il precedente. La decisione del Tribunale di Treviso, come detto, trova un precedente illustre nella sentenza n. 18396 del 2017 della III sezione penale della Cassazione, che aveva affermato che “a prescindere dal fatto che un lavoratore possa essere titolare o meno di un’impresa artigiana ovvero essere un lavoratore autonomo, quel che conta, ai fini dell’applicazione delle norme incriminatrici in questione, è che egli oggettivamente disimpegni mansioni lavorative tipiche dell’impresa nel luogo di lavoro deputato e su richiesta dell’imprenditore”.

Con la sentenza in commento, la n. 30923 del 6 novembre 2020, la Suprema Corte riporta all’interno di un perimetro di ragionevolezza l’interpretazione della norma del TULS in questione.

Invero, per quanto si sia affermato che la definizione di “lavoratore” di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. a), faccia leva sullo svolgimento dell’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale in forza della quale essa è prestata e nonostante la definizione sia più ampia di quelle previste dalla normativa pregressa, che si riferivano al “lavoratore subordinato” (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3) ovvero alla “persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro” (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, comma 1, lett. a), occorre evitare effetti distorsivi e illogici.

Se è pur vero, osserva la Corte, che ai fini dell’applicazione delle norme incriminatrici previste nel TULS rileva l’oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell’impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell’imprenditore, a prescindere dal fatto che il “lavoratore” possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo (Cass. Sez. III penale, 11 aprile 2017, n. 18396), non può non rilevarsi come, nel caso tale accezione fosse indiscriminatamente ritenuta applicabile ad ogni tipo di relazione comportante lo svolgimento di un’attività astrattamente qualificabile come lavorativa in favore di un soggetto – che, contestualmente, avrebbe acquisito la qualifica di “datore di lavoro” – il sistema della normativa in questione presenterebbe evidenti incongruenze applicative.


E’ evidente per i Giudici che l’obbligo per il datore di lavoro di sottoporre il lavoratore a sorveglianza sanitaria possa essere “riferito solo all’ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia caratterizzato da una certa durata nel tempo, posto che diversamente, ove la stessa si riferisse anche a prestazioni occasionali destinate ad esaurirsi uno actu, non avrebbe alcun senso il richiamo alle scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria, le quali logicamente implicano una certa ampiezza del tempo in cui la prestazione lavorativa è svolta.”

Far discendere la qualifica di lavoratore-dipendente anche da una prestazione lavorativa meramente occasionale significherebbe, peraltro, gravare il datore di lavoro anche dell’ulteriore obbligo di formazione ed addestramento del lavoratore, incompatibile con la brevità della prestazione richiesta. In tali casi, afferma la Corte, si deve naturalmente presupporre che il lavoratore sia professionalmente già formato, non essendo così richiesto un periodo di addestramento ulteriore rispetto al periodo in cui la prestazione viene erogata.

Non si dimentichi infine la lettera R) del medesimo art. 18 TUSL, che impone una serie di obblighi in capo al DL – quale, ad esempio, quello di comunicazione all’INAIL dei dati e delle informazioni relative agli infortuni sul lavoro che comportino l’assenza dal lavoro di almeno un giorno oltre a quello dell’evento – che paiono naturalmente incompatibili con una prestazione occasionale che inizia e si esaurisce nel giro di qualche ora.

In definitiva, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale anche la eventuale occasionalità del rapporto lavorativo avrebbe imposto l’adempimento da parte dell’imputato- datore di lavoro dell’obbligo di cui al capo di imputazione “mina radicalmente, sotto il profilo della logica, l’interpretazione della normativa applicabile al caso”, così viziando la motivazione della sentenza di primo grado che, pertanto, viene annullata con rinvio.

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