L’applicabilità dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova per le persone giuridiche imputate ex D.Lvo 231/2001 è un tema di assoluta attualità nel panorama della giurisprudenza di merito.
A pochi mesi dall’ordinanza del GIP di Modena (19.10.2020) che, non rilevando elementi ostativi, aveva sospeso il procedimento ed ammesso l’imputato (Ente) alla prova, è intervenuta una pronuncia opposta del Tribunale di Bologna che ha negato l’applicabilità dell’istituto alle persone giuridiche.
Il giudice di Modena, lo ricordiamo, aveva accolto la richiesta dell’Ente acconsentendo all’esecuzione di un programma di trattamento elaborato ad hoc. La società, infatti, attiva nella produzione di generi alimentari, si era impegnata a destinare una parte della propria produzione ad un organismo religioso che gestiva un punto di ristoro per persone bisognose.
A tale attività di volontariato di rilievo sociale si aggiungeva il risarcimento dei soggetti danneggiati dall’illecito e la revisione del modello di organizzazione e gestione.
Accertata la completa esecuzione del programma, il GIP aveva dichiarato l’estinzione del reato.
La decisione si era concentrata sulla compatibilità dell’attività prestata dall’Ente con gli obiettivi dell’istituto previsto dall’art. 168 bis del codice di rito, senza affrontare particolari questioni giuridiche.
Il provvedimento del giudice modenese, come noto, non è stato però il primo.
In effetti, con provvedimento del 27 marzo 2017 il Tribunale di Milano aveva ritenuto inammissibile l’istanza di sospensione con messa alla prova presentata dalla persona giuridica sul presupposto che i lavori di pubblica utilità equivalessero ad una vera e propria sanzione penale che, in quanto non richiamata da alcuna norma, avrebbe violato il principio di legalità di cui all’art. 25 co. II Cost.
Secondo il GIP di Bologna (ordinanza del 10 dicembre 2020), invece, “la considerazione circa la natura punitiva dei lavori socialmente utili che non sarebbe suscettibile di applicazione analogica non appare condivisibile”. Come chiarito dalla sentenza n. 91 del 2018 della Corte Costituzionale: “il trattamento programmato non è infatti una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma dà luogo a una attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato”.
Il GIP di Bologna ritiene tuttavia che la messa alla prova nei confronti della persona giuridica imputata ai sensi del D.lgs 231/2001 non sia applicabile per altre ragioni.
In primo luogo, è previsto dall’art. 464 quater c.p.p. che il Giudice debba disporre la sospensione del procedimento sulla base dei parametri di cui all’art. 133 c.p. quando ritenga che l’imputato si asterrà dal compimento di ulteriori reati. Tali parametri, osserva il Giudicante, “sono palesemente calibrati sulla figura dell’agente persona fisica e non possono essere adattati su un ente responsabile dell’illecito”.
In secondo luogo, il programma di trattamento deve prevedere il coinvolgimento dell’imputato e del suo nucleo familiare nel percorso di reinserimento sociale. Anche in questo caso, l’inapplicabilità all’imputato-Ente pare evidente: “trattasi pacificamente di prescrizioni che si fondano su un percorso di risocializzazione del soggetto, anche se prescindono da un accertamento giudiziale della responsabilità”.
Appare infine ostativo quanto previsto dal comma secondo dell’art. 168 bis c.p. nella parte in cui si riferisce alla valutazione specifica di rispetto del programma, di reinserimento sociale e di evoluzione della personalità verso modelli socialmente adeguati che i servizi sociali faranno dell’imputato ammesso alla prova.
Sul punto il GIP ritiene impossibile calibrare tali prescrizioni all’imputato–Ente “specie in considerazione delle ipotesi in cui i vertici apicali delle società asseritamente responsabili dei reati sono stati sostituiti, non si vede quale soggetto dovrebbe in concreto essere chiamato a relazionarsi con i servizi sociali”. Spogliati di qualsiasi valenza rieducativa, i lavori socialmente utili finirebbero per risolversi in un mero costo per la società, facendo venir meno la finalità rieducativa dell’istituto.
Ad avviso del giudicante, in definitiva, il mancato coordinamento tra la L. 67 del 2014 e il testo del D.Lvo 231/2001 non sarebbe una mera dimenticanza ma una scelta.
Deve pertanto “ritenersi indebita l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova a situazioni non espressamente previste dalla norma. Ciò in quanto si rischierebbe di introdurre, per via giurisprudenziale, un nuovo istituto, del quale lo stesso giudice sarebbe chiamato a declinare i presupposti sostanziali e processuali”.
Chiude, ad oggi, il dibattito giurisprudenziale una recentissima ordinanza del Tribunale di Modena (15.12.2020) che aggiunge una ulteriore lettura interpretativa.
Si tratta di una pronuncia di rigetto che, diversamente dalle altre precedentemente analizzate, non prende posizione in merito al rapporto tra l’istituto e il rito ex D.Lvo. 231/2001 ma esprime una valutazione del tutto preliminare.
Ritiene infatti il Giudice di non poter accogliere l’istanza dell’Ente poiché lo stesso, prima della commissione dell’illecito, non si era dotato di un modello di organizzazione e gestione. In particolare “l’ammissibilità dell’ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova sarebbe comunque subordinata al possesso di unimprescindibile pre-requisito da parte della società, ovvero l’essersi dotata, prima del fatto, di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice”.
In assenza di un precedente modello, pertanto, sarebbe impossibile per il giudicante formulare una prognosi in ordine alla “pericolosità organizzativa” dell’Ente, invero necessaria ai sensi dell’art. 464 quater co. 3 c.p.p.
Emerge allora come in un programma di trattamento creato ad hoc per un imputato-Ente debba trovare spazio, oltre ad un risarcimento del danno con l’eliminazione delle conseguenze negative dell’illecito e lo svolgimento di una attività di rilievo sociale, anche l’intenzione di rimodulare il proprio assetto societario con la rielaborazione del modello organizzativo dimostratosi inidoneo.
In assenza di un precedente modello organizzativo, dunque, il programma di trattamento sarebbe irrimediabilmente compromesso e, per l’effetto, inapplicabile.
Questa ultima pronuncia, ad ogni modo, parrebbe assumere un atteggiamento di apertura verso l’applicabilità dell’istituto, allineandosi all’orientamento già espresso dal medesimo Tribunale di Modena.
La questione rimane aperta!