Uno degli argomenti più dibattuti in materia di sicurezza in questo periodo è quello dell’obbligo di vaccinazione in capo ai lavoratori. Non esiste una norma che obblighi espressamente a vaccinarsi contro il SarsCov2; tuttavia, esistono una serie di norme che, imponendo al datore di lavoro di garantire la sicurezza dei lavoratori, potrebbero indurre a pensare l’esistenza di un obbligo “implicito”.
Come noto la vaccinazione è un trattamento sanitario che, per effetto dell’articolo 32 della Costituzione, può essere imposto soltanto per legge.
Esistono casi nei quali la vaccinazione è obbligatoria per legge sia per la popolazione sia per alcune categorie di lavoratori.
Alcuni vaccini possono poi essere imposti dal datore di lavoro per far fronte al rischio biologico ai sensi del titolo X del D.Lvo 81/08 che, come noto, è dedicato al rischio biologico, o, meglio “a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici”.
Il problema però è quello di capire se il Titolo X possa estendersi al di là dei casi in esso disciplinati, anche per i rischi biologici generici.
Ma perché è importante decidere quando il Titolo X si deve applicare? Perché una norma in esso contenuta, l’articolo 279 comma 2, prevede l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori i vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione.
La norma prevede un obbligo per il datore di lavoro, ma non per il lavoratore.
La stessa norma prevede che il lavoratore non vaccinato (o naturalmente immunizzato), debba essere allontanato dal luogo di lavoro ex art. 42 TUS. Ma non è prescritto alcun obbligo di vaccinazione.
Alcuni commentatori ritengono che quella parte della norma che stabilisce che “il vaccino è somministrato dal medico competente” configurerebbe un vero e proprio obbligo per il lavoratore di sottoporvisi. Mi sembra, onestamente, un’interpretazione azzardata. Tanto più che le uniche sanzioni previste a carico del dipendente nel Titolo X (art. 285 TUS), attengono alla mancata comunicazione di incidenti o di infortuni o incidenti che riguardano l’uso di agenti biologici.
Nessuna sanzione espressa, quindi, per il rifiuto di vaccinazione.
Le difficoltà operative inoltre sono tante e in un momento storico come l’attuale non è esigibile che sia la singola azienda a procurarsi il vaccino e il singolo medico del lavoro a somministrarlo.
Che fare quando il lavoratore non accetta di sottoporsi a vaccino?
Come detto l’articolo 42 del TUS prevede lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni. Lo scopo della norma è quello di garantire che il dipendente “fragile”, ossia non protetto dal contatto con il microorganismo, possa ottenere protezione senza perdere il posto di lavoro. Ma in un contesto pandemico è del tutto evidente che questa soluzione ha un senso solo se le nuove mansioni sono esercitabili con l’home working.
Il rifiuto ingiustificato di vaccinarsi potrebbe costituire una giusta causa di licenziamento disciplinare?
Difficile rispondere in termini assoluti anche se la dottrina sembra essersi orientata in senso negativo. Bisognerà verificare caso per caso.
Potrebbe costituire una causa di licenziamento oggettivo, ora sospeso fino al 31 marzo p.v. (salvo ulteriori proroghe).
Che fare del lavoratore che si è sottoposto a vaccinazione o, comunque, è stato naturalmente immunizzato?
In questo caso nulla autorizza a disapplicare i protocolli preventivi: le mascherine e gli igienizzanti dovranno continuare ad essere utilizzati, così come le altre misure di contenimento adottate in azienda.
Fino a quando il legislatore non fornirà indicazioni specifiche, i protocolli andranno rispettati, per tutti.