Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti può essere commesso anche dall’amministratore o dal liquidatore di una società che si siano insediati successivamente alla ricezione e registrazione delle false fatture.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza 42602 del 10 novembre 2022, sezione III penale, in adesione ad un orientamento giurisprudenziale già espresso in passato e in via di consolidamento.
La Suprema Corte ha ritenuto che il delitto in questione possa essere integrato anche con dolo eventualedel suo autore, consistente nell’accettazione del rischio che la presentazione della dichiarazione dei redditi possa comportare l’evasione delle imposte dovute a causa dell’utilizzazione delle false fatture.
Condictio sine qua non per l’affermazione di responsabilità del nuovo amministratore (o del liquidatore) è però la prova, spiegano gli Ermellini, “della conoscenza o conoscibilità, mediante una diligente opera di verifica della contabilità e dei bilanci, della fittizietà delle poste e della documentazione fiscale di riferimento.”
La motivazione della sentenza, in vero, è piuttosto oscura, soprattutto nella parte in cui afferma che il “dolo specifico richiesto per la configurabilità del reato … è compatibile con il dolo eventuale”.
Ora, se è vero che il dolo è specifico allorché la condotta è compiuta allo scopo di raggiungere uno specifico risultato e che è eventuale allorché quello stesso risultato è prospettato unicamente come una delle possibili conseguenze (accettate) del proprio agire, non si vede come le due forme di volontà possano coesistere.
Ciò nonostante, ed è questo il punto di scarsa comprensione, la Suprema Corte ha ribadito che non vi è alcuna incompatibilità tra il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice e quello eventuale, consistente nell’accettazione del rischio che dalla dichiarazione fraudolenta possa derivare il mancato pagamento delle imposte. Anzi, dice ancora la Corte, quest’ultima forma di dolo è il presupposto della prima perché il delitto di frode fiscale è di puro pericolo e di mera condotta, che si perfeziona, in altre parole, a prescindere dal verificarsi di un evento. Quindi, cerca di chiarire la Suprema Corte, agire con la finalità di evadere le imposte, significa anche accettare il rischio che ciò avvenga!
Il ragionamento è veramente poco convincente: perché mai attribuire rilievo all’accettazione del rischio del verificarsi di un fatto che, anche qualora non si verificasse, non avrebbe alcun impatto sul perfezionamento del reato?
Davvero, non si capisce.
Ma tant’è!
La Suprema Corte ricorda che chi assume il ruolo di amministratore di una società (o di liquidatore) si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze, e perciòsotto il profilo soggettivo, versa quantomeno in una situazione di dolo eventuale, e non in mera colpa, il soggetto che, subentrando ad altri dopo la dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, abbia assunto la carica di liquidatore, senza aver compiuto il previo controllo, di natura puramente documentale, sugli ultimi adempimenti fiscali.
La sentenza ribadisce gli obblighi di “conoscibilità” della falsità delle fatture attraverso una “diligente” opera di verifica della contabilità e dei bilanci a carico dei nuovi soggetti apicali della società. L’eventualità del dolo, insomma, sembra riferirsi non tanto all’evento (evasione dell’imposta), bensì all’inesistenza delle operazioni sottostanti alle fatture. Il vero rimprovero che i giudici muovono è quindi quello di non aver diligentemente verificato la contabilità pregressa, non aver colto eventuali segni di pericolo e, ciò nonostante, avere presentato la dichiarazione fiscale accettando il rischio di corredarla di fatture false, più che evadere le imposte.
A tale affermazione si potrebbe opporre che se il nuovo amministratore (o il liquidatore o chi per essi) non effettua negligentemente alcuna verifica, certamente non gli si può, per ciò solo, addebitare la conoscenza della falsità delle fatture e delle operazioni ad esse sottostanti. Si tratterebbe infatti di un comportamento colposo che, come tale, non rileva ai fini della sussistenza del reato tributario.
Nel caso in esame si è ritenuta la responsabilità dell’imputato sulla scorta delle anomalie che la documentazione fiscale di supporto, annotata e registrata in contabilità, presentava e che avrebbe dovuto allarmare il nuovo organo apicale della società ed indurlo a non utilizzare le fatture nella dichiarazione periodica. Ma ciò non significa che egli fosse consapevole della falsità delle fatture, ma soltanto che avrebbe potuto esserlo se fosse stato più diligente!
L’orientamento rigoroso dalla Corte finisce con l’ampliare oltremodo il campo di applicazione della norma incriminatrice che, strutturata per punire condotte orientate all’evasione fiscale, punisce anche le negligenti omissioni di verifiche addebitabili al nuovo amministratore.
Le motivazioni che hanno condotto la Suprema Corte ad esprimere il principio di diritto in via di consolidamento sono oggettivamente confuse, poco chiare e sono state oggetto di critiche da parte della dottrina senza, però, alcun effetto.