Le principali fattispecie penali di reati ambientali previste dal codice penale sono connotate dall’abusività della condotta. Si tratta di una specificazione del fatto che all’epoca dell’approvazione della legge causò parecchie polemiche politiche ma che il legislatore ritenne comunque di prevedere onde evitare un eccessivo allargamento del campo di applicazione della fattispecie.
La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta per chiarire il significato dell’avverbio in relazione ad una fattispecie di attività organizzate per il traffico di rifiuti, reato previsto dall’articolo 452 quaterdecies c.p. La norma punisce il fatto di predisporre attività continuative ed organizzate per gestire o trasportare abusivamente rifiuti.
L’abusività della condotta, spiega la Suprema Corte, terza sezione penale nella sentenza n. 8975 del 2 marzo 2023, si riferisce a tutte le attività non conformi ai precisi dettati normativi, svolte nel delicato settore della raccolta e smaltimento di rifiuti. La natura abusiva della condotta è tale non solo quando è svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime, o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quando è posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative.
L’arresto giurisprudenziale è molto rigoroso: qualsiasi discostamento dalle modalità di esercizio di un’attività rispetto ai titoli abilitativi è sufficiente per la connotazione abusiva della condotta.
Assenza di autorizzazione o violazione delle norme contrattuali (come nel caso esaminato dalla Suprema Corte), costituiscono elementi sufficienti per la realizzazione dell’illecito.
Ma anche il possesso dell’autorizzazione non costituisce una garanzia di liceità. Il reato può sussistere infatti quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente difforme dall’attività autorizzata, per le modalità concrete con le quali essa viene esplicata, che risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, al punto da non potere essere ricondotte al titolo abilitativo. Perciò la violazione del contratto di appalto, anche se si è in possesso dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività, è sufficiente per integrare il delitto.
A ben vedere questa specificazione non era forse necessaria.
Nel caso in esame, infatti, l’abusività della condotta è derivata dal fatto che i soggetti che trasportavano i rifiuti, senza neppure aver partecipato ad una gara di evidenza pubblica, comunicavano ai gestori degli impianti di stoccaggio provvisorio un elenco di targhe di automezzi non loro, ma appartenenti a terzi, prive del nominativo dell’effettivo proprietario, facendoli apparire come propri, apponendo, per camuffarli, agli automezzi delle predette società, le insegne di altre ditte le quali utilizzavano per l’espletamento del servizio loro affidato personale e automezzi non propri.
Trasportare rifiuti con mezzi diversi da quelli autorizzati equivale a trasportarli senza titolo e, cioè, commettere quantomeno il reato contravvenzionale previsto dall’articolo 256 del D.lgs 152/2006.
Non vi sono dubbi, perciò, sull’abusività della condotta né si può affermare, come parrebbe trarsi dal passaggio argomentativo della sentenza, che l’agente fosse in possesso dei titoli richiesti per il trasporto.
La sentenza, infine, ha messo in evidenza la differenza tra il delitto previsto dal codice penale e quello punito dal citato articolo 256 del Testo Unico Ambientale. Quest’ultimo integra un solo elemento della fattispecie codicistica che richiede la pluralità dei trasporti abusivi, il perseguimento di un profitto ingiusto e la predisposizione di una struttura organizzata.