La sentenza della Corte di Cassazione, sezione terza penale, n. 2245 del 20 gennaio 2022 (ud. 15/10/21) ha stabilito che la pena inflitta per il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lvo 74/00) deve essere diminuita per effetto dell’applicazione della sanzione pecuniaria prevista per la corrispondente fattispecie amministrativa prevista dagli articoli 1, comma 2 e 5, comma 4 del D.lvo 471/97.
Sovente una violazione tributaria è punita sia da leggi amministrative che penali, sicché si pone il problema del concorso di norme e ci si chiede se l’applicazione dell’una non escluda l’altra.
Come noto, l’articolo 19 del D.Lvo 74/00 prevede il principio di specialità, in forza del quale se lo stesso fatto è punito da una norma penale del D.Lvo 74/00 e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la norma speciale.
Al contempo, l’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto di non essere perseguito o condannato due volte (c.d. divieto di ne bis in idem). La Corte di Giustizia Europea ha più volte affermato che il divieto si applica a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito alla sanzione che, quindi, anche se qualificata come amministrativa, deve comunque essere equiparata a quella penale quando (volendo semplificare il concetto) la sua funzione sia principalmente retribuita o afflittiva che dir si voglia.
Nel caso di specie, la Corte Suprema ha escluso l’esistenza di un rapporto di specialità (art. 19 D.Lvo 74/00) tra il delitto di dichiarazione infedele e la corrispondente fattispecie amministrativa, sul presupposto che quest’ultima consiste nell’indicare un reddito o un’imposta inferiori al dovuto; invece, il reato è integrato con l’indicazione di elementi attivi inferiori all’ammontare effettivo oppure dall’indicazione di elementi passivi inesistenti.
La sentenza, dopo una lunga ed approfondita disamina della giurisprudenza della CEDU, ha ritenuto che la sanzione amministrativa, che va dal novanta al centottanta per cento della maggiore imposta dovuta e che era stata inflitta con provvedimento ormai definitivo, “ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU e 4 Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU”. Nel caso in esame era stata infatti inflitta una sanzione pecuniaria di oltre 650.000 euro.
Ciò nonostante, non si è ritenuto violato il divieto di doppio giudizio perché, sulla scorta dei principi enunciati in sede europea, esso non opera nei casi di litispendenza, ossia quanto taluno sia sottoposto contemporaneamente a diversi procedimenti per il medesimo fatto storico, oppure quando gli stessi siano strettamente connessi dal punto di vista sostanziale e procedurale. Evenienze entrambe verificatesi nel caso di specie.
Tuttavia, in ossequio ai dettami della Convenzione EDU, il giudice deve porre in essere un meccanismo di compensazione che mitighi gli effetti della seconda sanzione, alla luce di quelli verificatisi dalla condanna precedente. Tecnicamente ciò deve avvenire attraverso la valutazione delle circostanze attenuanti generiche e i criteri di ragguaglio previsti dall’articolo 135 c.p.
Nel caso in esame la Corte ha evidenziato che, stante il rapporto di ragguaglio previsto dall’articolo 135 c.p., la sanzione amministrativa inflitta sarebbe equiparabile ad una condanna detentiva superiore a sette anni di reclusione, di gran lunga superiore a quella inflitta dal giudice penale.
Questo principio non si applica nel caso in cui la sanzione amministrativa sia stata pagata da un soggetto diverso (leggasi: l’impresa).
La regola espressa dalla Suprema Corte tende indubbiamente ad equilibrare un quadro sanzionatorio tributario ipertrofico, che duplica le sanzioni e che, per tale ragione, è oggetto di forti critiche e dubbi di legittimità costituzionale.
Il principio vale per tutti i reati tributari e non solo per quello oggetto del caso specifico.