Costituzione di parte civile, responsabilità amministrativa degli enti ex D.lvo 231 del 2001

La possibilità di esercitare l’azione civile nel processo penale a carico dell’ente imputato ai sensi del D.Lvo n. 231 del 2001 è uno dei temi più controversi nell’ambito del sistema normativo della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

È noto il provvedimento del Tribunale di Trani del 7 maggio u.s. col quale i giudici, contrariamente a quanto disposto in precedenza dal GUP del medesimo Tribunale, hanno ammesso la costituzione di parte civile dell’associazione di consumatori nei confronti di Ferrotramviaria spa, ente imputato dell’illecito amministrativo da reato di cui all’art. 25 septies del D.L.vo 231 del 2001.

Si tratta di una pronuncia contraria alla giurisprudenza dominante per una problematica, dunque, tutt’altro che risolta. Infatti, mettendo a confronto la sentenza di Trani con quelle della Cassazione che se ne sono occupate (in particolare le sentenze, sez. VI, n. 2251/2011 e sez. IV, n. 3786/2015), si comprende quanto il tema dell’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente sia ancora distante da un approdo definitivo.

Il dibattito sul punto ha finito per coinvolgere anche il tema della natura della responsabilità degli enti, sul quale la stessa giurisprudenza di legittimità non ha ancora raggiunto una posizione definitiva e la dottrina, a sua volta, si mostra divisa. Le soluzioni oscillano dal riconoscimento della natura di vera e propria responsabilità penale, oppure meramente amministrativa o, infine, di una sorta di tertium genusdi responsabilità riconducibile ad un modello latu sensucriminale, in cui vengono coniugati elementi del sistema penale e di quello amministrativo.

Sia la Cassazione (sent., sez. VI, 2251/2011 cit. e prima ancora sez. VI, 27735/2010) sia il Tribunale di Trani propendono per quest’ultima soluzione, quella cioè del tertium genus, ma pervengono a conclusioni opposte circa l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti. È perciò evidente che la soluzione di quest’ultima problematica non dipende in maniera decisiva dalla natura giuridica della responsabilità prevista nel D.L.vo n. 231 del 2001.

Come condivisibilmente affermato dai supremi giudici nella sentenza 2251/2011: “la soluzione, infatti, può essere svincolata dal tema relativo alla definizione della tipologia della responsabilità da reato, che rischia di diventare una questione meramente nominalistica, per essere affrontata attraverso l’esame positivo dei contenuti della speciale normativa che disciplina il processo nei confronti degli enti, vagliandone la compatibilità con l’istituto codicistico della costituzione di parte civile”.

Il punto di partenza, secondo la Cassazione, non può che essere la constatazione che nel D.L.vo 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile.

Ciò non sarebbe il risultato di una dimenticanza ovvero di un difetto di coordinamento, ma di una scelta consapevole del legislatore.

La parte civile non è menzionata nella sezione 2^, capo 3^ del decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell’ente, né ad essa si fa alcun cenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari, all’udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni sulla sentenza; istituti che, invece, nelle norme codicistiche che li riguardano, contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa.

Per contro, accanto alla materiale “assenza” di riferimenti riguardanti la parte civile, il D.L.vo. n. 231 del 2001contiene alcuni dati testuali specifici che confermano la volontà di escludere il danneggiato dal processo. Da un lato, vi è l’art. 27 che, nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell’ente, la limita all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili; dall’altro, appare particolarmente significativa la regolamentazione del sequestro conservativo di cui all’art. 54. L’omologo istituto codicistico disciplinato dall’art. 316 c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della “pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario”, sia delle “obbligazioni civili derivanti dal reato”, in quest’ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro. L’art. 54 citato, invece, limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all’erario) e può essere richiesto unicamente dal pubblico ministero.

Sulla base di queste considerazioni, afferma la Cassazione, “il tentativo di proporre un’interpretazione che porti ad applicare, in via estensiva o analogica, le disposizioni codicistiche sulla costituzione della parte civile si presenta di difficile attuazione, soprattutto perché manca una vera e propria lacuna normativa da colmare”.

Il tribunale di Trani, al contrario, ritiene che debba essere accolta la tesi “estensiva” e quindi debba essere ammessa la possibilità per il danneggiato di esperire l’azione risarcitoria direttamente nei confronti dell’ente nell’ambito del processo penale.

Si legge nell’ordinanza che “il legislatore ha espressamene individuato un sistema di rinvio recettizio alle disposizioni generali sui procedimenti in base a quanto disposto dagli art. 34 e 35 del citato D.Lvo n. 231 del 2001, di talché deve escludersi che debba farsi ricorso all’analogia”. A ciò si aggiunga che «la relazione illustrativadel D. Lgs. 231/2001 non contiene alcuna indicazione relativa alla inammissibilità della costituzione di parte civilenei confronti dell’ente, circostanza di evidente valore significante, posto che il legislatore nei casi in cui ha voluto discostarsi dalle previsioni del codice di rito in ordine a singoli istituti, lo ha espressamente previsto (…).

Di contro, nessuna norma del D. Lgs. 231/2001 vieta espressamente la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente».

Con riguardo all’art. 54 del decreto, il Tribunale ritiene che esso non sia ostativo alla costituzione di parte civile nei confronti dell’ente, in quanto la norma riguarda la “sanzione pecuniaria” e non la “pena pecuniaria” come indicato nell’art. 316 c.p.p. Di conseguenza, l’art. 54 deve ritenersi norma integratrice della disciplina codicistica del sequestro conservativo, senza derogare alla disciplina del codice ed in particolare alle disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 316 c.p.p. che concernono le garanzie delle obbligazioni civili, implicitamente recepite dal D.L.vo 231.

Un altro aspetto problematico del nostro argomento, riguarda la diretta applicabilità nel D.L.vo n. 231 del 2001 degli articoli 185 c.p. e 74 c.p.p.

Scrive la Cassazione che “il reato che viene realizzato dai vertici dell’ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità dell’ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presuppostofondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio che l’ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato”.

In altre parole, l’illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone.

Ne consegue che “se l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un’applicazione  dell’art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al “reato” in senso tecnico” (Cass.Pen., sez. VI, n. 2251/2011 cit).

Invero, tanto l’inquadramento dell’illecito dell’ente come fatto produttivo di danni risarcibili ex art. 2043 c.c., quanto il riconoscimento che quella dell’ente sia una responsabilità per fatto proprio, non paiono argomenti idonei a dimostrare che in questo processo debba trovare spazio la disciplina sulla costituzione di parte civile in mancanza di dati normativi positivi che autorizzino tale conclusione.

La possibilità di esperire l’azione civile nel processo penale, lungi dall’essere un principio generale dell’ordinamento, rappresenta una sorta di deroga al principio della completa autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale, tanto che le disposizioni processuali che consentono la decisione nel giudizio penale dell’azione civile sono da considerare di natura quasi eccezionale.

Pertanto, per ritenere che il giudice competente a conoscere l’illecito dell’ente sia anche competente a conoscere i danni derivanti da esso sarebbe stata necessaria, secondo la Cassazione, una previsione espressa.

Diversa, evidentemente, la conclusione del tribunale tranese, che ritiene che “dal fatto dell’ente(colpa di organizzazione; deficit di organizzazione e controllo) possa derivare un danno risarcibileper fatto proprio dell’ente, che lo obbliga a norma dell’art. 185 c.p. (…) senza che rilevi che, nel caso di specie, nei confronti dell’ente sia stata già esercitata da alcune parti civili l’azione civile indiretta, tramite lo strumento della citazione del responsabile civile”.

Ad avviso dei supremi giudici la scelta del legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno derivante dall’illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato.

Il riferimento è, in particolare, agli artt. 12 e 17 del decreto, che consentono all’ente di ottenere l’esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei danni patiti dalla vittima, nonché all’art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di profitto che può essere restituita al danneggiato.

Dalla formulazione delle disposizioni menzionate si ricaverebbe che il danno cui si riferiscono è quello derivante dal reato e non quello determinato dall’illecito amministrativocommesso dall’ente, sicché le argomentazioni possono essere rovesciate e sostenere che il legislatore, ancora una volta, ha escluso la configurabilità di conseguenze dannose derivante dall’illecito amministrativo, limitandosi a prevedere “sconti” di sanzioni collegate esclusivamente a forme di “reintegrazione” di danni da reato.

In ogni caso, è stato notato come il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. “ravvedimento operoso” è circostanza del tutto neutra rispetto al problema dell’ammissibilità della costituzione di parte civile, come è dimostrato dalla disciplina del processo penale a carico di imputati minorenni, in cui è prevista la possibilità di adottare prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato (art. 28) e nello stesso tempo è esclusa l’ammissibilità dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale (art. 10).

Di carattere diametralmente opposto le valutazioni del tribunale tranese che, con riguardo alle disposizioni degli artt. 12, 17 e 19 del d.l.vo 231, vale a dire agli effetti che il risarcimento del danno, ovvero la sua tenuità possono avere sul sistema sanzionatorio nei confronti dell’ente, ovvero sulla possibilità di azionare civilisticamente la pretesa restitutoria del danneggiato del prezzo o il profitto del reato, scorge ragioni sistematiche per confermare, da un lato, il riferimento agli effetti civili prodotti dal reato e, dall’altro, la possibilità di agire contro l’ente.

Ancora divergenti, infine, le valutazioni della Cassazione e del Tribunale di Trani sulla portata della sentenza della Corte di giustizia del 12 luglio 2012 (causa C-79/2011) e della Corte Costituzionale n. 218/2014.

La Corte di Giustizia aveva ritenuto «la compatibilità della disciplina italiana di cui al citato Dlgs con il Diritto Europeo nel senso che: “l’art. 9, paragrafo 1, della decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel processo penale, deve essere interpretato nel senso che non osta a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima del reato non possa chiedereil risarcimento dei danni direttamente causati dallo stesso, nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato”».

Il Tribunale di Trani ritiene che tale decisione non sia dirimente, in quanto essa si limiterebbe a prendere atto che nel diritto interno l’ente non è autore di un reato e come tale è improprio il richiamo all’art. 9 della decisione quadro invocata, che non stabilisce alcuna impossibilità all’azione risarcitoria della vittima dell’illecito realizzato dall’ente in ambito penale.

Con riguardo alla pronuncia della Corte Costituzionale, infine, i giudici tranesi si limitano a rilevare che, trattandosi di una pronuncia di inammissibilità per omessa indicazione della norma asseritamente incostituzionale, essa non sarebbe entrata nel merito della questione e si sarebbe limitata a chiarire che l’illecito cui è chiamato a rispondere l’ente non coincide con il reato ascritto alla persona fisica. Conseguentemente, quest’ultima e l’ente non sono da considerarsi coimputati nel medesimo reato e il dettato dell’art. 83 c. 1 c.p.p. non costituisce impedimento alla citazione dell’ente come responsabile civile.

In definitiva, nonostante la giurisprudenza maggioritaria escluda la possibilità di ammettere la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente imputato ai sensi del D.Lvo 231 del 2001, bisogna ammettere che non tutte le argomentazioni appaiono insuperabili.

L’interpretazione, anche radicalmente opposta, dei medesimi elementi, ci fa comprendere quanto il tema sia ancora suscettibile di nuovi sviluppi e di esiti differenti tra loro.

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