Il consenso del lavoratore non basta per legittimare il datore di lavoro all’uso di telecamere

La vicenda riguarda la condanna di un imprenditore per la violazione degli artt. 114 e 171 del d.lgs n.196 del 2003 e degli artt. 4, comma 1 e 38 della legge n. 300 del 1970, per avere installato all’interno della propria azienda, in assenza di un preventivo accordo sindacale ovvero della autorizzazione della sede locale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, n. 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza.
L’imprenditore aveva chiesto agli organi periferici dell’Ispettorato competente il rilascio della autorizzazione ma, prima del suo conseguimento, aveva installato i predetti apparecchi.
A nulla poteva valere, ad avviso del Tribunale di Milano che lo ha condannato in primo grado, la circostanza che l’imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, sia perché il documento era stato formato successivamente alla installazione delle telecamere e sia perché, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali, esso non poteva sostituire la procedura prevista dalla legge.

Ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/70) la installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori può essere giustificata esclusivamente per esigenze, fra l’altro, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale, ma deve sempre essere eseguita previo accordo collettivo stipulato con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali o, ove non sia stato possibile raggiungere tale accordo, solo in quanto preceduta dal rilascio di apposita autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.

Osserva la Cassazione come non abbia alcun rilievo la circostanza, dedotta dal ricorrente, secondo la quale l’impianto di registrazione visiva era stato installato per garantire la sicurezza degli stessi dipendenti.

Parimenti irrilevante è la circostanza che l’imputato non abbia avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese, essendo l’impianto gestito da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro.

Con riguardo alla autorizzazione dei dipendenti, la Cassazione formula un duplice ordine di considerazioni.
In primo luogo, la dichiarazione sottoscritta da tutti i dipendenti era stata rilasciata il giorno successivo a quello in cui fu constatata la presenza dell’impianto di videosorveglianza, circostanza che inficia il valore esimente di tale manifestazione di volontà. Trattandosi di un elemento negativo della fattispecie, scrivono i supremi giudici, il consenso dell’avente diritto non solo deve perdurare sino al termine della consumazione dell’illecito, ma deve essere stato espresso in un momento anteriore a detta consumazione,

La Cassazione ritiene tuttavia che non sarebbe stato possibile ritenere scriminata la condotta dell’imputato neppure laddove la stessa, in assenza della intesa in sede sindacale ovvero della autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, fosse stata preceduta dalla dichiarazione liberatoria rilasciata dai dipendenti.
Il consenso in qualsiasi forma (scritta od orale, preventiva o successiva) prestato dai singoli lavoratori non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice. 

La norma penale in questione, infatti, al pari di quelle che richiedono l’intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori per la disciplina degli assetti nei luoghi di lavoro, non tutela l’interesse personale del singolo lavoratore né la sommatoria aritmetica di ciascuno di essi, ma presidia interessi di carattere collettivo e superindividuale.
La condotta datoriale, che pretermette l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenziale finalizzazione al controllo a distanza dello svolgimento dell’attività lavorativa, e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione”.

La ragione per la quale la regolamentazione di tali interessi è affidato alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un imparziale organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori possano autonomamente provvedere al riguardo, risiede, ancora una volta, nella considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro. La diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale del datore di lavoro, rispetto a quella del lavoratore, è la ragione per la quale tale procedura deve ritenersi inderogabile.
Da tutto ciò deriva come non abbia alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori, in quanto la tutela penale è apprestata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali, per espressa disposizione di legge, sono esclusive portatrici, in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato.
Deve in definitiva affermarsi che “il consenso o l’acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell’avente diritto, non essendo nel caso descritto la condotta del lavoratore riconducibile al paradigma generale dell’esercizio di un diritto, trattandosi della disposizione di una posizione soggettiva a lui non spettante in termini di esclusività (sostanzialmente nel condiviso senso, qui ampiamente e spesso testualmente riportato, oltre alla citata sentenza n. 22148 del 2017, anche, ancora più recentemente, Corte di cassazione, Sezione III penale, 24 agosto 2018, n. 38882)”.

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