Con la sentenza n. 16975 del 4 luglio 2020, la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul reato di rivelazione di segreti scientifici o industriali di cui all’art. 623 c.p., specificando i confini del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
La vicenda processuale trae origine dalla denuncia querela presentata dalla ATLAS srl, società che si occupa di progettazione, costruzione e commercializzazione di apparecchiature meccaniche, elettroniche e informatiche per il serraggio, nei confronti di alcuni ex dipendenti che, dopo essersi dimessi dalla società, hanno realizzato e commercializzato una chiave dinamometrica analoga a quella prodotta dalla querelante, sfruttando le conoscenze e l’esperienza professionale acquisita negli anni di lavoro presso quest’ultima.
La Corte d’appello di Milano, riformando parzialmente la decisione del Tribunale di Monza, ha assolto tutti gli imputati dal reato di cui all’art. 171 bis L. 633/1941 e ha rideterminato la pena per il reato di cui all’art. 623 c.p.
Le difese degli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione, lamentando la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 623 c.p. assumendo, da un lato, che il know how oggetto di protezione non sarebbe stato adeguatamente identificato e, dall’altro, che sarebbe mancato, in ogni caso, il requisito della segretezza delle informazioni di cui all’art. 98 codice proprietà industriale.
In particolare, il know how, non identificato né identificabile, sarebbe stato privo dei requisiti di tutelabilità di legge, anche in considerazione della totale diversità della chiave prodotta dagli imputati rispetto a quella di ATLAS, sia sotto il profilo dell’hardware che del software. La chiave dinamometrica che si assumeva replicata, infatti, era un prodotto semplice, in commercio da moltissimo tempo e soggetto a continue evoluzioni. La sua commercializzazione da parte di ATLAS aveva reso di pubblico dominio l’asserito know how con conseguente perdita di qualsiasi pretesa di tutelabilità.
La sentenza impugnata, inoltre, sarebbe stata carente di motivazione e affetta da errori giuridici in ordine ai concetti di “notizia destinata a rimanere segreta” di cui all’art. 623 c.p. e alla nozione stessa di segretezza di cui alla normativa nazionale e internazionale. In particolare si riteneva che ATLAS, non avendo attuato alcuna misura a tutela della segretezza del know how, quale la stipula di contratti di non concorrenza o l’adozione di misure idonee a delimitare l’accesso alle informazioni, avesse con il suo comportamento escluso la tutelabilità dello stesso.
Infine, quale rafforzativo della tesi sopra esposta, si rilevava come gli stessi Giudici d’appello avessero riconosciuto la diversità del prodotto commercializzato dagli imputati rispetto a quello di ATLAS, sia sotto il profilo tecnico che implementativo, avendo essi posto in essere una chiave concorrenziale. Di conseguenza, essendo i prodotti finiti diversi, anche il know how sarebbe stato diverso.
La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto infondati i motivi di impugnazione sulla base di un articolato percorso argomentativo.
I Giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato l’orientamento giurisprudenziale, fatto proprio dalla Corte territoriale, in base al quale, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 623 c.p., non costituisce condizione necessaria la sussistenza dei presupposti di brevettabilità della scoperta o dell’applicazione rivelata di cui all’art. 2585 c.c., dovendosi ritenere “oggetto della tutela penale del reato in questione il “segreto industriale” in senso lato, ovvero “quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione (Sez. 5 n. 25008 del 2001 cit., conf. 28882 del 23/05/2003, Rv. 226356)”.
La copertura offerta dall’art. 623 c.p., quindi, è più ampia rispetto a quella predisposta dall’ordinamento civilistico all’invenzione brevettabile, estendendosi al patrimonio di conoscenze tecniche e organizzative acquisite negli anni dall’impresa (il cd. know how).
La Suprema Corte, infatti, ha ricordato che, grazie all’interpretazione evolutiva della giurisprudenza, il cd. know how aziendale, oltre che in ambito civilistico, è tutelato anche in sede penale dall’art. 623 c.p., il cui bene giuridico è stato individuato “nell’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi che caratterizzano la struttura industriale e, pertanto, il cd. know how, vale a dire (…) quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un apparato industriale. Ci si riferisce, con tale espressione, a una tecnica, o una prassi o, oggi, prevalentemente, a una informazione e, in via sintetica, all’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni, e capace di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo, e quindi un’aspettativa di un maggiore profitto economico. […]. L’informazione tutelata dalla norma in questione è, dunque, un’informazione dotata di un valore strategico per l’impresa, dalla cui tutela può dipendere la sopravvivenza stessa dell’impresa”.
Il cd. know how aziendale viene fatto rientrare nel campo di applicazione della norma in commento in quanto riconducibile all’elastica nozione di “applicazione industriale” – oggi assimilabile all’espressione “segreto commerciale” introdotta dall’art. 9 d.lgs. 63/2018 – comprensiva di tutte le innovazioni e gli accorgimenti che contribuiscono al miglioramento e all’aumento della produzione, ancorché privi dei requisiti per la loro brevettazione (Cass. pen. 25008/2001).
Nel caso di specie, è emerso che gli imputati, sfruttando le conoscenze software acquisite durante il rapporto di collaborazione con ATLAS e avvalendosene in modo sleale, erano riusciti in pochi mesi a realizzare un prodotto tecnologicamente sofisticato e fortemente concorrenziale – per la cui realizzazione la querelante aveva sostenuto un elevato impegno economico e di ricerca e tre anni di successiva sperimentazione – senza incorrere negli errori nei quali normalmente incorre chi affronta nuove realizzazioni, con conseguente notevole vantaggio patrimoniale a discapito della società querelante.
In merito al requisito della segretezza delle informazioni, la Suprema Corte ha escluso ogni assimilazione tra il concetto di “segreto industriale” di cui all’art. 623 c.p. e quello di “informazioni segrete aziendali” di cui all’art. 98 c.p.i.
La nozione di “segreto industriale” accolta dall’articolo 623 c.p. è più ampia rispetto a quella descritta dal codice di proprietà industriale: ai fini della tutela penale, infatti, non è necessario che le singole informazioni che compongono la sequenza per la concretizzazione di una fase economica siano non conosciute, ma è la sequenza stessa a dover essere non nota e considerata segreta in modo fattivo dall’azienda.
Ciò significa che “se l’art. 98 c.p.i. non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie prevista dall’art. 623 c.p. […], tuttavia, in presenza di un know how avente i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., potrà accordarsi la tutela prevista dall’art. 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato al mantenimento del segreto. Laddove, invece, non sussistano i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., dovrà individuarsi aliunde l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto”.
L’interesse al mantenimento del segreto è stato correttamente individuato dai giudici di merito nel fatto che ATLAS, pur essendo presente in centinaia di paesi nel mondo, aveva deciso di acquistare la società BLM per acquisire il know how sviluppato da quest’ultima e poter immettere sul mercato un prodotto caratterizzato da elevati standard tecnologici, non ripetibile altrimenti sul mercato industriale. Tale circostanza era nota agli imputati che, alla luce delle posizioni apicali ricoperte in seno alla società, avevano potuto apprezzare la riservatezza delle informazioni costituenti il know how di BLM prima e ATLAS dopo.
Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, la Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi presentati dalle difese degli imputati, condannando gli stessi al pagamento delle spese processuali.