La rilevanza penale della concessione abusiva del credito.


Per concessione abusiva del credito s’intende quella condotta dell’ente che finanzia (o continua a finanziare) l’impresa ormai irreversibilmente insolvente e concede un credito ad un soggetto immeritevole, perché certamente incapace di restituirlo.

È sostanzialmente irrilevante il motivo che spinge il finanziatore ad alimentare l’impresa agonizzante: l’unica condizione necessaria è che il credito sia stato erogato al di fuori dei casi consentiti, in una situazione cioè nella quale, secondo la diligenza del buon banchiere, il finanziamento non si sarebbe dovuto concedere.

La linea di confine tra l’abusività e la legittimità della concessione del credito, già sottile nell’ottica civilistica ove, alle ragioni dei creditori si contrappone il legittimo esercizio del diritto d’impresa (quella finanziatrice, s’intende), si assottiglia ancor più ove s’ipotizzino aspetti penalistici.

In altre parole, quando la concessione abusiva del credito sfocia nell’illecito penale?

Non esiste nel nostro ordinamento una norma specifica per questa fattispecie che è fortemente caratterizzata dagli aspetti psicologici della condotta: le finalità perseguite, insomma, sono quelle che più di ogni altro aspetto possono connotare la concessione abusiva del credito sul piano penalistico.

Non si deve confondere la situazione in esame con i casi nei quali il credito sia concesso per effetto di azioni fraudolente del beneficiario. Si pensi all’ipotesi speciale di truffa prevista dall’articolo 218 l.f. (ricorso abusivo al credito), o alla truffa o, ancora, alle ipotesi di corruzione tra privati (art. 2635 c.c); tutte fattispecie nelle quali il soggetto erogante è vittima della condotta altrui.

Ci si chiede invece a quali condizioni l’erogazione consapevole del credito abusivo possa rivestire una rilevanza penale integrando qualche specifica fattispecie.

Il riferimento che viene subito alla mente è quello alla normativa fallimentare e, in primo luogo, alle condotte di bancarotta fraudolenta o semplice (art. 216 e 217 L.f. e le corrispondenti fattispecie dell’articolo 223). L’erogazione abusiva del credito può assumere i connotati di qualche condotta distrattiva ex art. 216 l.f.?

La concessione del credito in sé, non può costituire un fatto distrattivo, giacché si tratta di risorse che entrano nella disponibilità dell’impresa. A monte, pertanto, l’erogazione del credito non può essere qualificata come penalmente abusiva, illecita per il solo fatto di essere avvenuta. Il fatto distrattivo (o dissipativo) attiene ad un momento successivo e, in qualche modo, “retroagisce” i propri effetti per attribuire la veste abusiva alla concessione del credito.

I reati di bancarotta sono propri del fallito. I soggetti terzi possono concorrere ex art. 110 c.p. a condizione che siano consci della qualifica soggettiva del reo principale e della condotta criminosa. Bisogna, insomma, che il funzionario sappia che l’intento dell’imprenditore è quello di sottrarre le risorse aziendali (nel caso di specie, del finanziamento) e che anch’egli agisca con la volontà che ciò accada o, quanto meno, ne accetti il rischio. Non è necessario che la consapevolezza del concorrente si spinga fino al punto della conoscenza dello stato d’insolvenza dell’impresa.

Più pertinente, semmai, invocare la fattispecie, oltretutto colposa, dell’articolo 217 comma 1 n. 4) l.f. che punisce l’imprenditore che “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”.

Questa è l’essenza intrinseca dell’abusività del credito: prolungare l’agonia dell’impresa moribonda, in modo tale che i creditori, passati e futuri, subiscono il pregiudizio di aver rinnovato o concesso fiducia all’operatore economico immeritevole.

Può allora il funzionario di banca rispondere in concorso con l’imprenditore del reato fallimentare?

La risposta sembra essere positiva, almeno sul piano astratto.

Andranno dimostrati i fatti: la conoscenza dello stato di decozione, come si diceva. Ma non vi sarà bisogno dell’evidenza del dolo, perché il delitto è colposo, sicché sarà sufficiente portare la prova della negligenza di chi ha concesso il credito ingiustificato (rectius: abusivo).

Peraltro, l’ambito di applicazione della norma incriminatrice è stato ampiamente ristretto dall’introduzione dell’articolo 217 bis l.f. che, come noto, risponde all’esigenza di garantire gli strumenti di ristrutturazione delle imprese in crisi. Il reato è perciò escluso ex lege allorché il finanziamento sia erogato in un contesto di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti o, comunque, in una delle procedure alternative previste dal citato art. 217 l.f.

Accanto all’ipotesi colposa, non può però escludersi la configurabilità del più grave delitto fallimentare previsto dall’articolo 223 comma 2 n. 2 l.f. che, come noto, punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite che hanno cagionato il fallimento con “operazioni dolose”.

La genericità del testo di legge non permette di delineare con chiarezza la tipologia delle condotte rilevanti, sicché ci si dovrà rivolgere all’ampia casistica, oltretutto sempre in evoluzione, elaborata dalla giurisprudenza. Il dolo richiesto dalla norma incriminatrice deve avvolgere le sole “operazioni” e non anche il successivo evento-fallimento.

Dal punto di vista soggettivo, affinché possa dirsi integrata l’ipotesi delittuosa in oggetto è sufficiente la coscienza e la volontà dell’operazione che – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico – finanziaria della società, e come tale dunque “dolosa” – dia luogo alla decozione”.

Sul piano oggettivo, invece, le operazioni dolose attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria dell’impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (in tal senso: Cass. pen. Sez. V, Sent., ud. 12/10/2018, dep. 06/03/2019, n. 9843).

Non è necessario che le citate operazioni integrino per sé un illecito penale, essendo sufficiente la loro generica antigiuridicità.

La Suprema Corte ha anche specificato che può costituire “operazione dolosa” rilevante ai fini della fattispecie di cui ci occupiamo anche la proroga di un finanziamentoa condizioni onerose, in luogo della restituzione della somma maturata (Cass. pen., Sez. V, Sentenza, 05/12/2014, n. 15613 rv. 263804) chiarendo però che “(…) affinché possa addebitarsene la responsabilità anche al creditore, non è sufficiente la mera decisione di concedere la proroga ovvero di pretendere condizioni più gravose piuttosto che richiedere l’immediato rientro ovvero il fallimento, e ciò anche quando questi è consapevole dello stato di dissesto del debitore, ma è, invece, necessario che il comportamento del creditore presenti, in forma diversa ed ulteriore, i caratteri del contributo causale alla consumazione del reato, come quando vi sia una istigazione, nella consapevolezza dell’impatto della proroga sull’equilibrio economico dell’impresa, a porre in essere l’operazione ritenuta illecita .”

Il punto nevralgico evidenziato dalla Corte è proprio questo: “concedere la proroga di un prestito, piuttosto che pretenderne l’immediato rientro o, in ipotesi, richiedere il fallimento del debitore inadempiente è scelta che, anche qualora il creditore sia consapevole dello stato di dissesto di quest’ultimo, non costituisce di per sé condotta apprezzabile a titolo di concorso nell’operazione dolosa eventualmente imputabile al debitore medesimo.”

La necessità di contemperamento tra il diritto all’esercizio dell’impresa (per la banca) e degli interessi dei creditori (del soggetto finanziato) trova il suo punto di equilibrio nell’accertamento delle modalità della condotta e delle finalità del finanziatore. Le maglie sono strette, ma è astrattamente ipotizzabile che la concessione abusiva del credito possa assumere i connotati del concorso del funzionario dell’ente erogatore nelle operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento della società.

Quel che accade allorché il credito è concesso per consentire al beneficiario di compiere operazioni certamente illecite come, ad esempio, la costituzione di una riserva allo scopo di eludere i controlli dell’autorità di vigilanza (come nel caso trattato da Cass. pen., sez. V, ud 18/2/2010, dep. 7/5/2010 n. 17690).

Più in generale, quindi, l’abusività del credito si trasforma in responsabilità penale se chi ha erogato il prestito sia stato anche l’istigatore o il beneficiario di operazioni dolose a depauperare il patrimonio dell’impresa, allorché risulti consapevole del rischio che le predette operazioni determinano per le ragioni dei creditori della società.

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